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Ferdinando Scianna nel suo libro “Lo specchio vuoto” dice che la fotografia si occupa del visibile, dei corpi animati e inanimati, ricavandone immagini. Il rapporto tra immagine e corpo umano è un viaggio lungo, che ha origini antichissime, nasce ancor prima che la fotografia venisse intesa come scienza, destinata all’uso di un medium. Il desiderio di rappresentare e rappresentarsi è insito nell’uomo, nella sua natura di osservatore e di abitante dello spazio e del tempo; lo scoprirci riprodotti, descritti, raccontati, ha ben altro significato, che va oltre il solo ricostruire fisicamente quello che siamo, quello che noi vorremmo essere, di come vorremmo essere visti, di come pensiamo che il mondo ci veda. In realtà, come dice sempre Scianna: niente è più astratto e sfuggente della nostra identità, e nello stesso tempo niente è più esposto al giudizio altrui, è più concreto e visibile. A cominciare dal volto, la prima immagine di noi stessi. Da quasi
due secoli la fotografia è legata alla nostra stessa idea di identità. Ed è così che nelle immagini fotografiche che ci ritraggono abita congenito il mistero della nostra identità e della nostra unicità, nonché, come dice Concita De Gregorio, anche della nostra reputazione. Un arcano svelato quindi, affascinante come tutte le cose che coinvolgono la nostra natura, il nostro essere.
Questo è quello che succede se ruotiamo l’obbiettivo verso di noi, se poniamo il focus all’interno, per cercare di mostrare la nostra vera natura, scegliendo di calare quella maschera che indossiamo quotidianamente e che, ad un certo punto, per volontà, desiderio, necessità, chiede di essere abbassata. Riuscire nell’intento di mostrarsi, intendendo in tal modo il donarsi allo sguardo altrui, è un’operazione faticosa che chiunque abbia scelto la fotografia come strumento espressivo dovrebbe adottare come sistema esperienziale per migliorarsi anche come autore; perché per poter osservare ed interpretare il mondo in modo laico ed etico è necessario, prima di ogni altra cosa, conoscersi nel profondo. Bisogna aver passato il guado, superato quello specchio vuoto aldilà del quale non è sempre detto che ci si ritrovi.
Non riconoscersi nelle fotografie succede pressoché a tutti, accade però il miracolo, e allora, quando nell’immagine ci rivediamo, possiamo pensare di aver ottenuto il salvacondotto per “raccontare” attraverso questo nostro e nuovo sguardo, diventato empatico e trasparente.
La fotografia non è altro che un incidente, a causa del quale il dentro ed il fuori hanno la possibilità, per la durata di un clic, di incontrarsi e, magicamente, osservarsi.
Isabella Tholozan
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